L’Autismo nel DSM 5: il concetto di spettro autistico e la diagnosi dimensionale

Il DSM 5 introduce il concetto di spettro autistico determinando una svolta nel modo di diagnosticare, e quindi di concepire, l’autismo. Si passa da una diagnosi categoriale dei vecchi DSM ad una diagnosi dimensionale che permette di definire meglio le caratteristiche della persona al fine di poter fare diagnosi più accurate, impostare trattamenti più efficaci e favorire la ricerca. Nell’articolo di oggi vediamo insieme le novità portate dal DSM 5 per l’autismo e in cosa consiste il concetto di spettro autistico.

Nel precedente articolo abbiamo trattato le modifiche ed i cambiamenti nella concezione di autismo, dalle prime osservazioni di Kanner ai criteri diagnostici del DSM IV.

Oggi tratteremo le concezioni teoriche e metodologiche del DSM 5, partendo dal radicale cambio di approccio di classificazione rispetto al precedente DSM IV, fino ad arrivare agli studi per la validazione dei criteri diagnostici attuali che hanno previsto l’introduzione del concetto di disturbo dello spettro autistico.

Infine, verranno elencati alcuni quesiti proposti dai clinici dell’ambito per un ottimale futuro inquadramento dell’autismo.

Spettro autistico e dsm 5

L’AUTISMO NEL DSM 5 E IL CONCETTO DI SPETTRO AUTISTICO: INTRODUZIONE

Nel 2013 l’American Psychiatric Association (APA) ha rilasciato il DSM 5, la tanto attesa nuova versione del suo Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali.

Conosciuto, e non sempre visto sotto una luce positiva, come “Bibbia” della psichiatria, il DSM delinea i criteri per diagnosticare i vari disturbi mentali.

Per la maggior parte di questi, compreso l’autismo, la diagnosi si basa interamente su sintomi e comportamenti osservabili rilevati come criteri per definire e riconoscere una condizione clinica in maniera il più possibile “ateorica” quindi sganciata, per quanto possibile da un approccio teorico di riferimento.

L’attenzione a questi strumenti diagnostici e alla loro struttura, insieme alla loro centralità del dibattito in materia di autismo, è motivata dal fatto che le modifiche ai criteri diagnostici possono ridefinire completamente la nostra concezione di una condizione clinica e delle caratteristiche ad essa correlate.

Tale ridefinizione del quadro clinico ha un conseguente forte impatto in termini di capacità di comprendere il problema, riconoscerlo tempestivamente e impostare trattamenti efficaci.

Rispetto all’autismo, il DSM 5 include diverse modifiche rispetto alla precedente versione, il DSM-IV (le cui caratteristiche sono state analizzate nel precedente articolo).

La nuova edizione combina quattro diagnosi indipendenti del DSM IV (disturbo autistico, sindrome di Asperger, disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato – PDD NOS e disturbo disintegrativo dell’infanzia) in un’unica etichetta di disturbo dello spettro autistico.

Il motivo di questo cambiamento è che questi disturbi hanno gli stessi sintomi alla base che compongono il “nucleo sintomatologico” della condizione clinica e che variano dal punto di vista quantitativo su vari gradi di gravità.

Il concetto di singola categoria di disturbo dello spettro autistico, con le caratteristiche principali della condizione che rappresentano un “nucleo” comune, è emerso nel tempo con gli avanzamenti nella ricerca genetica nel campo dell’autismo che mostra una base di geni comune la quale determina il manifestarsi delle caratteristiche della condizione e dei sintomi dell’autismo.

Secondo l’APA quindi, nella nuova definizione di autismo del DSM 5 è meglio pensarlo come un singolo disturbo su un ampio spettro, con la diagnosi di disturbo dello spettro autistico che va a rappresentare un termine “ombrello” al di sotto del quale vengono raggruppate molteplici ed eterogenee manifestazioni della condizione clinica.

Il passaggio dalla vecchia edizione al DSM 5 delinea quindi un marcato cambiamento di approccio diagnostico che passa da categoriale a dimensionale: dalle varie categorie dei disturbi pervasivi dello sviluppo del DSM IV si passa alle dimensioni, i sintomi “chiave”, dello spettro autistico nel DSM 5.

L’AUTISMO NEL DSM 5 E IL CONCETTO DI SPETTRO AUTISTICO: DALL’APPROCCIO CATEGORIALE AL DIMENSIONALE NEI CRITERI DIAGNOSTICI DEL DSM

Nel DSM IV, la definizione di un termine diagnostico era basata su un elenco di criteri e, in quasi tutti i casi, era semplicemente il numero di sintomi in varie categorie che definiva se il tipo di diagnosi dovesse essere usato o meno per descrivere la condizione clinica del soggetto.

Questo approccio è chiamato diagnosi “categoriale”: per fare diagnosi ciò che conta è la presenza del corretto numero di sintomi in una determinata categoria.

Un esempio che evidenzia uno dei principali problemi con questo tipo di sistema diagnostico è che se qualcuno che presenta quattro sintomi, tutti a malapena abbastanza gravi o rilevanti da poter essere validi come criterio, può soddisfare i criteri per una diagnosi, mentre qualcuno con solo tre sintomi, anche se molto gravi, potrebbe non farlo.

In buona sostanza, si considera la sola presenza dei sintomi e non viene “pesata” e presa adeguatamente in considerazione la gravità dei sintomi che, “in primis”, può contribuire al disagio e alla compromissione di funzionamento legati ad una condizione clinica (due aspetti chiave per la significatività clinica di una combinazione di sintomi o caratteristiche).

Ecco quindi quale problema diagnostico si è potuto superare introducendo il concetto di diagnosi dimensionale: il livello di gravità dei sintomi, o del problema clinico generale, diventa l’aspetto centrale nel processo diagnostico di inquadramento delle varie caratteristiche e sintomi presenti.

Ogni caratteristica, sintomo o deficit viene quindi definito come lungo un continuum dimensionale all’interno del quale bisogna collocarne intensità e gravità.

Invece di pensare a una diagnosi come una lista di sintomi da contare, si concepisce una certa condizione clinica come un insieme di “dimensioni” di misurare in termini di intensità.

Proprio come la larghezza, la lunghezza e l’altezza sono dimensioni dello spazio in fisica, allora umore, ansia, disturbi del sonno, sintomi somatici o introversione sono tutte dimensioni da misurare e valutare per il loro grado di gravità nell’ambito di una diagnosi dimensionale.

Rispetto all’autismo, erano emersi e venivano utilizzati strumenti di valutazione dimensionale dei sintomi e delle caratteristiche della condizione fin dalle prime concezioni di autismo di Rimland del ’68.

L’evoluzione e la progressiva diffusione di strumenti dimensionali di valutazione di sintomi e abilità nella ricerca e nella pratica clinica, hanno spinto ulteriormente verso un approccio di questo tipo anche nei criteri diagnostici di base che viene raggiunto, per l’appunto, con il DSM 5 e il concetto di spettro autistico.

L’AUTISMO NEL DSM 5 E IL CONCETTO DI SPETTRO AUTISTICO: LE “DIMENSIONI” DELL’AUTISMO

Il DSM 5 combina i deficit sociali e comunicativi (i vecchi criteri DSM IV) in un’unica dimensione, riducendo a due i tre domini definiti nel DSM IV.

Quindi, nel DSM 5, per essere diagnosticato con disturbo dello spettro autistico, un individuo deve presentare:

  • A – Deficit persistente della comunicazione sociale e nell’interazione sociale in molteplici contesti;
  • B – Pattern di comportamento, interessi o attività ristretti, ripetitivi.

Queste due dimensioni sono la base della diagnosi dimensionale di disturbo dello spettro autistico nel DSM 5 che va combinata con altri descrittori specifici che delineano l’intensità e il livello di altre caratteristiche della condizione.

Inoltre, un ulteriore aspetto peculiare del DSM 5 è il comprendere nel criterio B, dei pattern di comportamento e interessi ristretti, gli aspetti legati all’alterazione della percezione sensoriale (es. Ipersensorialità).

Nell’osservazione clinica di queste dimensioni, spesso quello che si può osservare e/o sentirsi raccontare da genitori e insegnanti, si manifestano attraverso veri e propri comportamenti problema che rendono il quadro clinico ancora più difficile.

Insieme alle due dimensioni di base, viene integrata nella formulazione della diagnosi di disturbo dello spettro autistico la rilevazione dei seguenti specificatori:

  • Con o senza compromissione intellettiva concomitante;
  • Con o senza compromissione del linguaggio;
  • Associata a una condizione medica o genetica nota o fattore ambientale;
  • Associata a un altro problema del neurosviluppo, mentale o di comportamento.

Ulteriore fondamentale criterio di valutazione che viene proposto dal DSM 5 per l’autismo è il livello di gravità e di supporto richiesto suddiviso sui 3 livelli che descrivono il livello di compromissione tramite la descrizione delle due dimensioni principali (criteri A e B) sui 3 gradi di gravità:

  • Livello 1 – Necessario un supporto
  • Livello 2 – Necessario un supporto significativo
  • Livello 3 – Necessario un supporto molto significativo.

Altri aspetti peculiari inseriti riguardano il fatto che i sintomi devono essere presenti precocemente e che la compromissione funzionale nei vari contesti di vita non deve essere spiegata da compromissione intellettiva o da un quadro di ritardo nello sviluppo.

Per i livelli 2 e 3 risulta opportuno valutare l’implementazione di un intervento riabilitativo intensivo di approccio comportamentale in linea con i principi del Metodo ABA e dell’Analisi Comportamentale Applicata dove si andrà lavorare sia sui sintomi di autismo che sui comportamenti problema.

L’ AUTISMO NEL DSM 5 E IL CONCETTO DI SPETTRO AUTISTICO: LA DIAGNOSI DIFFERENZIALE TRA SPETTRO AUTISTICO E DISTURBO DELLA COMUNICAZIONE SOCIALE

Il DSM 5, inoltre, per inquadrare le difficoltà che impattano esclusivamente sulle abilità sociali, e che per questo non rientrano nella diagnosi di spettro autistico, ha introdotto una nuova categoria: il Disturbo Socio-Pragmatico della Comunicazione.

Tale diagnosi è collocata tra i Disturbi della Comunicazione, all’interno del più ampio dominio dei Disturbi del Neurosviluppo.

Il Disturbo Socio-Pragmatico della Comunicazione è caratterizzato da una difficoltà selettiva e specifica nell’uso sociale della comunicazione e del linguaggio.

Alcuni esempi di tali difficoltà e caratteristiche sono:

  • deficit nel comprendere e seguire le regole sociali della comunicazione verbale e non verbale;
  • difficoltà nel regolare e modulare i vari aspetti della comunicazione verbale e non verbale in base al contesto;
  • difficoltà nel seguire le regole sociali in un’interazione sociale;
  • deficit nella capacità di comprendere le informazioni implicite in un messaggio facendo inferenze;
  • difficoltà nel comprendere il linguaggio figurato astratto (es. una metafora, …);

Per utilizzare questa categoria diagnostica deve essere presente il criterio di significative limitazioni funzionali in molteplici ambiti generate dal problema di comunicazione.

Inoltre, le difficoltà sul piano comunicativo non devono essere spiegate da problematiche specifiche del linguaggio o nel livello cognitivo (es. quadro di ritardo nello sviluppo più generale o disabilità intellettiva).

La categoria Disturbo Socio-Pragmatico della Comunicazione, rispetto al DSM IV, inquadra i profili di caratteristiche che precedentemente sarebbero finiti nel “calderone” della categoria di Disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato (PDD NOS).

Distingue inoltre lo spettro autistico dai quadri che presentano una specificità di caratteristiche legate esclusivamente alle difficoltà di tipo comunicativo e non a interessi ristretti, ipersensorialità o comportamenti stereotipati e ripetitivi.

Quando le difficoltà riguardano quindi unicamente l’aspetto sociale e di pragmatica della comunicazione, questa nuova categoria diagnostica del DSM 5 permette di fare diagnosi differenziale rispetto allo spettro autistico che rappresenta quindi un altro fenomeno clinico.

L’AUTISMO NEL DSM 5 E IL CONCETTO DI SPETTRO AUTISTICO: I PASSI IN AVANTI DELLA MODIFICA DI APPROCCIO DIAGNOSTICO

Molti esperti nel campo dell’autismo hanno evidenziato numerosi vantaggi del nuovo approccio diagnostico dimensionale del DSM 5 per l’autismo e dell’introduzione del concetto di spettro autistico.

In primo luogo, l’aggregazione dei sintomi sociali e di comunicazione in un cluster o dominio comune è da molti stata considerata come molto sensata in quanto sono fenomeni che si sovrappongono concettualmente e nel concreto.

Il DSM IV li elencava come deficit separati ma la comunicazione è intrinsecamente sociale, l’interazione sociale è intrinsecamente comunicativa ed entrambi richiedono una “teoria della mente” (la capacità di dedurre i pensieri e i sentimenti degli altri).

Quindi il la concezione di autismo del DSM 5 ha appianato questa vecchia distinzione che presentava delle incoerenze.

In secondo luogo, l’introduzione di livelli di gravità per l’autismo, combinati ai criteri di base per il disturbo dello spettro autistico, è un’aggiunta estremamente utile nella pratica, poiché ci fornisce un modo per misurare quanto i tratti interferiscono con la capacità quotidiana di un individuo di farvi fronte, con il suo livello di adattamento e il livello di supporto necessario.

Il DSM 5 ha solo una scala a 3 punti per descrivere il livello di gravità per l’autismo ma questa è tuttavia una preziosa indicazione.

L’introduzione dei livelli di gravità va infatti nella direzione di riconoscere queste differenze individuali come centrali nell’inquadramento e nella pianificazione degli interventi clinici, educativi e riabilitativi.

In terzo luogo, l’introduzione di “specificatori” (come con o senza compromissione intellettiva concomitante, o con o senza compromissione del linguaggio) ci dà un modo per caratterizzare ulteriormente le differenze individuali in termini di capacità intellettive e di linguaggio.

Queste caratteristiche specifiche (intelligenza e linguaggio) sono state “da sempre” identificate come centrali dal punto di vista prognostico, quindi il DSM 5 porta gli avanzamenti in ricerca e pratica clinica in linea con l’approccio e i criteri diagnostici attuali.

Una delle critiche al nuovo DSM 5 è relativa all’eliminazione della diagnosi di Sindrome di Asperger (introdotta nel DSM IV dopo 50 anni di attesa) su cui molti non si sono trovati d’accordo.

Tuttavia, Baron Cohen sottolinea come, in realtà, la diagnosi di Sindrome di Asperger non sia stata realmente rimossa o cancellata, poiché continua ad esistere come l’assenza degli specificatori di compromissione intellettiva e di linguaggio. (Si ricorda che in Europa, dove utilizziamo l’ICD-10, continueremo a usare il termine e la diagnosi di Sindrome di Asperger, fino a quando con l’ICD-11 non decideranno di allinearsi alla concezione di autismo del DSM 5)

Alcune persone con sindrome di Asperger possono comprensibilmente sentirsi contrarie alla perdita, nel DSM 5, di un termine specifico per descrivere la loro “identità” ma in pratica non c’è stata perdita della sostanza del suo significato.

L’APA, in futuro, potrebbe aver bisogno di estendere gli specificatori per includere informazioni relative alla storia di sviluppo del soggetto (come l’età di esordio di singole parole o espressioni verbali), in modo che tutte le caratteristiche della precedente sindrome di Asperger facciano ancora parte del nuovo disturbo dello spettro autistico.

L’ AUTISMO NEL DSM 5 E IL CONCETTO DI SPETTRO AUTISTICO: L’IMPATTO DELLA DIFFERENZIAZIONE DATA DAGLI SPECIFICATORI

La presenza dell’uno o dell’altro di questi due specificatori (compromissione intellettiva e linguaggio) significa anche che quello che alcuni definivano “autismo classico” ora è meglio definito dal punto di vista operativo.

Questo è un utile passo in avanti perché significa che un individuo potrebbe essere contrassegnato non solo come autistico, ma anche come portatore di deficit linguistici, disabilità intellettiva o entrambi (dimensioni che si combinano per definire il quadro clinico del soggetto specifico in maniera più specifica rispetto ai vecchi DSM).

Questo in effetti segnala, in maniera chiara e diretta a chi eroga i servizi clinici e riabilitativi, che la persona può avere una singola, doppia o addirittura una tripla serie di esigenze riabilitative specifiche da soddisfare.

Questa è una buona notizia anche per la ricerca che può, da qui in poi, specificare quale di questi sottogruppi sta analizzando, in modo da accedere a dati più solidi dal punto di vista metodologico e quindi con maggiore impatto sull’ambito clinico.

Ad esempio, la scienza può continuare a esplorare, in modo più chiaro e definito, se ci sono differenze biologiche tra persone con o senza compromissione del linguaggio, o con o senza compromissione a livello intellettivo e cognitivo.

Ciò significa che il DSM 5 ci ha fornito un approccio graduale e lineare all’autismo (dal momento che anche intelligenza e abilità linguistiche possono entrambe essere misurate dimensionalmente) con, allo stesso tempo, la possibilità di definire sottogruppi più semplici da distinguere.

A tempo debito potremmo aver bisogno di più di tali specificatori, in modo che il DSM 5 sia utile non solo per la pratica clinica ma anche per una ricerca ancora più raffinata, al fine di ridurre ulteriormente l’impatto dell’eterogeneità dei disturbi dello spettro autistico e delle caratteristiche correlate.

L’ AUTISMO NEL DSM 5 E IL CONCETTO DI SPETTRO AUTISTICO: NEURODIVERSITÀ, DA DISTURBO A CONDIZIONE, DA INSIEME DI SINTOMI A SPETTRO DI CARATTERISTICHE…

Un’altra delle critiche valide all’approccio tipico del DSM in generale, ma non specifica per il DSM 5 o per l’autismo, è che il DSM usa il termine di accezione medica “disturbo”.

La maggior parte delle voci nel DSM sono chiamate “disturbo” ma per la natura delle caratteristiche dello spettro autistico sarebbe senz’altro preferibile il termine “condizione”.

Lo spettro autistico non è una malattia o un disturbo ma una condizione, un insieme di caratteristiche, un modo di essere: una forma di neurodiversità come differenza individuale e non come patologia.

Il termine “condizione” segnala a chi deve entrare a contatto con questo ambito che questo è biomedico in eziologia e può determinare la presenza di varie forme di disabilità, evitando le connotazioni alquanto negative del termine “disturbo”.

Quindi, l’auspicio è che, in un ipotetico DSM 6, il “disturbo dello spettro autistico” venga sostituito con il termine “condizione dello spettro autistico”.

Una piccola differenza di parole che accompagna un grande cambiamento concettuale di approccio e di punto di vista per questo ambito.

Dott. Alberto Cocco

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